martedì 19 giugno 2007

L'imprevidenza

L'imprevidenza

TITO BOERI
Fra due settimane scade il semestre entro cui undici milioni di italiani possono decidere cosa fare di quel 6,91 per cento del loro salario che viene oggi versato all’azienda presso cui lavorano, come accantonamento per la liquidazione. Non si hanno dati precisi su quanti lavoratori abbiano sin qui comunicato una loro scelta. Ma tutte le rilevazioni disponibili convergono nell’indicare che sono davvero pochi coloro che hanno esercitato questo loro diritto. Tra questi pochi, prevale chi ha optato per tenere il Tfr in azienda, soprattutto nelle imprese più piccole (dove quattro lavoratori su cinque paiono orientati a continuare a versare il Tfr al proprio datore di lavoro).

Chi non decide entro il 30 giugno vedrà il proprio Tfr trasferito a fondi con garanzia del capitale versato, che storicamente hanno offerto rendimenti inferiori al Tfr, e non potrà beneficiare del contributo del datore di lavoro previsto da molti contratti. Chi lo lascia in azienda perde l’occasione di costruirsi una previdenza integrativa con cui rimpinguare le inevitabilmente sempre più magre pensioni pubbliche. Il fatto che ciò stia avvenendo nelle piccole imprese preoccupa perché è lì che oggi trovano un impiego i lavoratori più giovani, quelli che hanno maggiormente bisogno della previdenza integrativa. Quanto costa per loro lasciare il Tfr in azienda? Per le leggi della capitalizzazione composta, anche piccole differenze nei rendimenti dei fondi pensione rispetto al Tfr comportano grandi variazioni nella ricchezza accumulata nell’arco della vita lavorativa. Ad esempio, un fondo che rendesse mediamente anche solo lo 0,4 per cento in più del Tfr, ai salari medi attuali, porterebbe a mettere da parte 20 mila euro in più della liquidazione in 38 anni di lavoro. Considerando i dati storici sul rendimento del Tfr e dei fondi pensione, la differenza diventa abissale: la liquidazione è inferiore ai 90 mila euro contro i 150 mila euro che si potrebbero ottenere affidando i propri soldi a un fondo pensione collettivo. Vero che il Tfr offre un rendimento certo, al contrario dei fondi pensione. Ma mentre i fondi pensione hanno una volatilità ridotta quando il loro rendimento viene valutato nell’arco di decenni, il Tfr lasciato in azienda è solo in parte coperto contro il rischio che l’azienda fallisca, un rischio più forte nelle imprese più piccole e crescente nella durata dell’investimento. Quindi per i giovani lavoratori la scelta di lasciare il Tfr in azienda è costosa e rischiosa al tempo stesso. Perché lo fanno allora? Presumibilmente perché non sono adeguatamente informati, oppure perché è il loro datore di lavoro a ricattarli (più o meno esplicitamente) mentre non c’è un sindacato in azienda in grado di difenderli e di coordinarne le loro scelte. Quando solo alcuni lavoratori in un’azienda decidono di destinare il Tfr ai fondi pensione mentre gli altri lo tengono in azienda, sui primi si concentra il rischio di perdere il lavoro: da quel momento in poi al datore di lavoro costerà meno licenziare i lavoratori che versano il Tfr ai fondi pensione rispetto a quelli che lo hanno lasciato in azienda. Sia la disinformazione che il mancato coordinamento dei lavoratori riflettono evidenti limiti nell’azione del sindacato.

La sconfitta è del sindacato prima ancora che dei lavoratori. Si preannuncia così all’orizzonte una grave perdita in conto capitale per i lavoratori e una sconfitta per il sindacato. Ma nessun campanello d’allarme viene lanciato da Cgil, Cisl e Uil. Nelle loro frequenti dichiarazioni e interviste sui giornali e in tv, i leader della triade parlano di tutto, proprio di tutto, tranne che del Tfr e non sono pochi coloro, soprattutto tra le fila della Cgil che, neanche troppo velatamente, gioiscono per il mancato decollo della previdenza integrativa
. Del resto, il presidente della Covip dichiara di contare sul silenzio-assenso e tra le fila dello stesso esecutivo vi è chi, come il ministro Paolo Ferrero, auspica proprio che i lavoratori lascino il Tfr in azienda.

Il ministero di Ferrero in questi giorni ha maldestramente censurato un rapporto Ocse, ritenuto reo di descrivere uno scenario di forte riduzione della generosità delle pensioni pubbliche troppo ottimistico. Questo significa che Ferrero è consapevole del fatto che i giovani avranno pensioni molto più basse, in rapporto al loro salario, dei loro genitori. Tuttavia assiste con malcelata soddisfazione alla riduzione della ricchezza di milioni di lavoratori pur di contenere lo sviluppo dei mercati finanziari.
Eppure i fondi pensione ammessi dalla normativa italiana hanno ben poco a che vedere con le «locuste del private equity» di cui il sindacato, non solo in Italia, ha timore. Questi fondi possono promuovere cicli virtuosi di crescita, anche occupazionale, delle imprese: in Europa le imprese in forte crescita attraggono i fondi pensione e il capitale di rischio fornito dai fondi permette alle imprese di crescere. Inoltre lo sviluppo di investitori istituzionali come i fondi pensione, che per definizione non possono che rappresentare le minoranze, serve a rendere più trasparenti i mercati finanziari, a combattere le scatole cinesi e a impedire che chi ha il controllo delle imprese eserciti questo potere contro gli interessi degli altri azionisti e degli stessi lavoratori.

Prima o poi, i lavoratori si renderanno conto di quanto sia costoso per le loro tasche il rifiuto aprioristico, ideologico, dei fondi pensione da parte di chi dovrebbe rappresentare i loro interessi. Ma rischiano di maturare questa consapevolezza molto tardi.
Avremo così perso molte occasioni per salvaguardare i redditi dei futuri pensionati e per tutelare gli interessi di molti piccoli azionisti.

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