mercoledì 30 maggio 2007

Commento all'Editoriale "Largo ai giovani"

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un lungo commento al lungo editoriale uscito sul numero 72 di Inchiostro, il giornale degli studenti dell'Università di Pavia.


Cara redazione di inchiostro,
visto che invitate i lettori a lasciare commenti, (immagino anche ai vostri articoli e non solo al blog), ho deciso di cimentarmi in quest'impresa, dopo aver letto il fondo “Largo ai giovani”, in prima pagina del numero di maggio.
Probabilmente l'autore, non volendo scrivere l'ennesimo pezzo sui DICO-Pacs e consimili, ha pensato, molto intelligentemente, di trattare l'argomento in maniera “implicita”, all'interno di un più ampio e facilmente condivisibile articolo sugli spazi dei giovani in politica.

Come a dire: “lo faccio uscire dalla porta per farlo rientrare dalla finestra”.
In maniera molto “elegante” ha poi estrapolato alcuni spezzoni dell'intervento del “dinosauro” per antonomasia della politica italiana, il sen. Andreotti, e li ha contrapposti alle “efficaci” e “profonde” osservazioni di un famoso maître à pénser “giovanile”, Fabio Volo, lasciando intendere che gli unici che si contrapporrebbero ai DICO sarebbero politici (o meno) “anacronistici e conservatori [...] poco al passo coi tempi”, mentre invece tutti i “giovani” condividerebbero in pieno le affermazioni di Volo: “Questa storia dei PACS per i giovani non ha senso. Noi siamo abituati a vedere due che hanno un figlio e non sono sposati. O due uomini che vivono insieme. A nessuno viene in mente che non siano una coppia [“coppia” in che senso, coppia sposata, famiglia?]: è nelle cose, per noi è normale ed i politici [secondo altri sarebbero invece proprio i politici a mostrare su questi argomenti un interesse particolare] non lo capiscono perché sono vecchi”. Io, pur essendo più giovane di Andreotti (e di Volo), non sono d'accordo.

C'è una falla, dunque, nell'ultimo “assioma” di Volo, “se non sei d’accordo con i DICO-Pacs, allora sei vecchio!”. Riflettendo, mi è venuto in mente che se valessero le affermazioni di Volo sui DICO-Pacs, potrebbe benissimo valere anche il discorso seguente, sul tema, molto “spinoso”, della disoccupazione e precarizzazione del lavoro giovanile: “La disoccupazione giovanile è oggi molto diffusa, come pure è diffusa per i giovani la precarizzazione del lavoro. Queste due situazioni occupazionali sono ritenute problematiche dagli interessati. Come possiamo risolverle? Istituzionalizziamole! Facciamo distribuire dallo stato un bello stipendio/vitalizio di disoccupazione, in buona parte estensibile anche ai precari e così abbiamo risolto il problema!

Non perdiamo tempo a far sì, invece, che le imprese siano incentivate ad assumere in maniera stabile nuovi dipendenti, stimolando la nascita di nuovi (e stabili) posti di lavoro.Non perdiamo tempo nello stimolare e promuovere la formazione culturale dei giovani, favorendone così le possibilità di trovare un posto di lavoro a tempo indeterminato.
Tanto ormai l'epoca del posto fisso e della piena occupazione è storicamente conclusa!”.Questo discorso vi sembra del tutto condivisibile?

Se si riconosce che la precarizzazione del lavoro è un problema, perché non cercare di combatterla (può sembrare lapalissiano ma forse non lo è) rendendo il lavoro meno precario?
Si può pensare di intervenire utilizzando sia la “leva economica” che quella “culturale”, favorendo, dal lato della “domanda” di lavoro, gli imprenditori che decidono di rischiare, assumendo un nuovo dipendente e trattandolo al pari degli altri (senza formazioni al lavoro “infinite”), mentre dal lato dell’“offerta”, si possono migliorare le competenze, la cultura e la determinazione (anche questa si dovrebbe stimolare nella formazione culturale!) dei giovani che entrano nel mercato del lavoro. I sussidi di disoccupazione possono essere strumenti utili per venire incontro a periodi difficili, ma non possono diventare degli stipendi/vitalizi per persone sane, in grado di lavorare, altrimenti la previdenza sociale non reggerebbe, e ciò andrebbe a scapito di chi effettivamente è invalido ed ha perciò bisogno di pensioni e supporti economici a vita.

Cosa si può “inferire” da tutto ciò?
Secondo me, che la precarietà, sia in ambito affettivo che in ambito lavorativo, non è la massima forma di realizzazione delle proprie capacità, e che i problemi ad essa conseguenti non si possono risolvere cercando di istituzionalizzarla! Sia chiaro, è molto difficile non rendere precario nulla in ambito affettivo. Quante volte si rompe una relazione che sembrava destinata a durare? Pensiamo alle “cotte” del periodo adolescenziale... Non a tutto si può dare una forma definitiva o “istituzionale”. Ma sta proprio qui, secondo me, un ulteriore “baco” del dibattito sui DICO. Chi in coscienza non si sente di prendere un impegno più o meno “definitivo”, di fronte non soltanto alla propria “metà” ma anche di fronte alla società ed a coloro che eventualmente verranno dopo è libero di farlo, ma senza pensare che così facendo ottenga diritti “comparabili” con chi quel dato impegno decide, “rischiando”, di prendere.
Istituzionalizzare il “decidere di non decidere” e parificarlo al “decidere rischiando”, a me sembra (e forse non solo a me) un poco “assurdo”, come un poco assurdo (almeno da un punto di vista economico e di giustizia sociale) sarebbe istituzionalizzare e dare uno stipendio ai disoccupati sani in grado di lavorare. Parafrasando uno slogan elettorale di un partito della “sinistra radicale”: “Coppie di fatto, uguali diritti ma doveri diversi”, non mi sembra affatto una grande pensata.

Riassumendo, non vorrei che i DICO, invece di essere uno strumento per risolvere i problemi esistenti delle singole persone conviventi (come i legislatori affermano), si trasformino invece in uno strumento tale da permettere, a chi ha la nostra età o meno, di fare la “furbata” di avere con la “minima spesa” la “massima resa”: più o meno gli stessi benefici, essenzialmente di natura economica, a fronte di minimi “impegni” (firma della ricevuta con raccomandata di ritorno davanti al postino, così finora prevede il ddl per la ratifica dei DICO!).
Potreste dirmi: “Va bene il discorso per le coppie di fatto eterosessuali, ma per le unioni omosessuali come la mettiamo?”
A questo punto bisogna premettere che i benefici su cui si sta discutendo se estendere o meno, in quale modo ed in che misura, ai conviventi non sposati, sono legati in buona parte alla questione della solidarietà intergenerazionale, propria di unioni aperte alla possibilità di avere figli (successioni, pensioni, eredità, congedi parentali ecc. ecc.).

Per quanto riguarda gli altri “diritti”, quali il subentro nell’affitto, l’accesso alle visite ospedaliere e la corresponsabilità nelle decisioni mediche, sono o in buona parte già ottenibili con strumenti legali esistenti (cointestazione dell’affitto) o già in buona parte riconosciuti da sentenze della corte costituzionale, e quindi facilmente “implementabili” giuridicamente, con poche modifiche alle leggi esistenti.
Si può capire allora come il problema dei DICO per le persone omosessuali conviventi diventi dunque abbastanza un “falso” problema.
Le finalità e le esigenze delle unioni omosessuali sono infatti decisamente diverse da quelle delle coppie di fatto eterosessuali.
Riconoscere questo semplice fatto non mi sembra costituire una “violenza” contro nessuno.

La questione soggiacente ai DICO, in questo ambito, è di natura un po' più “ideologica”, conseguenza di un'ideologia, quella “gay”, che oggi si tende a confondere con una situazione, quella omosessuale. I due termini però non sono sinonimi. L'ideologia gay sosterrebbe, a quanto ne so, che il “disagio” interiore della persona omosessuale sarebbe una conseguenza dell'“interiorizzazione” del “rimprovero”, anche implicito, della società.
Per questo motivo sarebbero importanti manifestazioni pubbliche, parate e “celebrazioni” matrimoniali o simili, aventi lo scopo di eliminare la percezione di questo “rimprovero”.

Non sono d'accordo con questa interpretazione, come del resto non lo sono molti psicologi e studiosi del comportamento umano. Si può infatti ritenere che questo “disagio” nasca piuttosto dalla consapevolezza, interiore e insuperabile, che la propria natura “corporea” e personale non “collimi” con la propria condizione psicologica (diversa dunque da “malattia” fisica pura e semplice), e che sia questa l’origine della sofferenza percepita dalla persona omosessuale (che nessuno mai dovrebbe permettersi di irridere!).

Secondo alcuni studi (abbastanza controversi è ovvio, quando si tratta di questioni così scottanti si possono urtare facilmente molte diverse sensibilità!), la condizione psicologica omosessuale (si badi bene, condizione “non fisiologica”, determinata cioè in maniera “automatica” da chissà quale alterazione genetica o ormonale, non esiste il “determinismo genetico” per i comportamenti umani superiori in buona parte consapevoli) non sarebbe nemmeno necessariamente permanente per tutta la vita e che da essa si possa, volendo, “uscire” (e non semplicemente “guarire” come si può guarire da un'influenza o da altre infermità fisiche).

Non essendo però un esperto su queste questioni eviterei però di dilungarmi ulteriormente...
Spero di non avervi annoiato eccessivamente con questa (troppo lunga) mail.
Con sentimenti di amicizia verso tutti.
Alla prossima!

C. A. Dallera

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